Professione disciplinata dalla Legge 14/01/2013 n.4



Dopo quello del Presidente Polato torniamo sul tema del riconoscimento da parte della Corte di Cassazione, del c.d. “Danno Punitivo” pubblicando un commento dell’ avv. Marco Bordoni del Foro di Bologna

Con sentenza del 5 luglio 2017 (n. 16.601/17) la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha segnato una svolta in qualche modo storica nella giurisprudenza italiana in fatto di responsabilità civile. Si è passati, nella sostanza, da una visione mono funzionale (unico scopo del presidio quello compensativo riparatorio) ad una polifunzionale (ovvero capace di ammettere, a fianco a quello tradizionale, numerosi altri scopi accessori, fra cui, importanti, quello deterrente – dissuasivo e quello sanzionatorio – punitivo). La nuova concezione obbedisce ad esigenze da un lato di deflazione del contenzioso, dall’ altro di effettività della tutela (esigenza, secondo la dottrina invocata, in qualche modo soffocata dalla precedente impostazione). Il principio solennemente affermato dalla Suprema Corte (al netto del pur interessante contesto offerto dal caso di specie, che è quello della delibazione nel nostro ordinamento delle sentenze straniere) è il seguente: “nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria della responsabilità civile.” (Cass Sez Unite 16601-2017 del 5_7_17 – danni punitivi-1).

Nel novero della casistica esaminata dalle Sezioni Unite (che sottolineano ripetutamente la necessaria sussistenza di un preciso supporto normativo alla irrogazione del danno punitivo…) attira l’ attenzione degli operatori il richiamo all’ art. 93 terzo comma c.p.c., una norma a cui, sin dalla sua introduzione (con la L. 18 giugno 2009, n. 69) non sono certo state risparmiate critiche. In particolare i primi interpreti hanno segnalato tre criticità interpretative:

  • indeterminatezza dei presupposti: non essendo espressamente richiamati i requisiti di cui al comma 1 dello stesso articolo (“dolo o colpa grave”);
  • mancata indicazione della specifica funzione; in particolare ci si è chiesto se si dovesse ricollegare l’ applicazione della norma alla verifica di un effettivo pregiudizio patito dalla parte vincitrice;
  • indeterminatezza dei criteri di liquidazione;

Possiamo oggi dire che i primi due nodi sono stati sciolti. In particolare la Suprema Corte (con sentenza Cass. Civ. 7726/16 scaricabile qui) ha risolto la prima questione stabilendo che il requisito del dolo e della colpa grave è necessario e deve investire la difesa nel suo complesso (non, quindi, una singola azione od eccezione), mentre la sentenza in commento, sul solco di giurisprudenza di merito ormai consolidata e dell’ autorevole sindacato di legittimità della Corte Costituzionale (contenuto nella sentenza 152/16 scaricabile qui) ha riconosciuto la ricevibilità nell’ ordinamento dei cosiddetti “danni punitivi” sanando con il proprio intervento anche il secondo “punto dolente”.

Resta la questione, non di poco conto, della quantificazione, di volta in volta stabilita dal Giudice, nella casistica quotidiana, in una misura pari ad una frazione del danno, alla sua integralità o con metodo equitativo puro (come nella nota sentenza del Tribunale di Varese che, rigettando la domanda, quantificò la “somma” ex art. 93, terzo comma, c.p.c. in misura pari ad oltre due volte la condanna alle spese di soccombenza processuale: scarica qui la sentenza).

Per quanto ci riguarda (e veniamo ad esaminare la norma sotto il punto di vista della difesa del danneggiato – attore) riteniamo che il descritto strumento possa essere utile al fine di vincere talune, ben note, resistenze strumentali e meramente defatigatorie poste in atto dalle controparti resistenti. A tutt’ oggi, tuttavia, risolta la più parte delle perplessità interpretative,  permane un’ ombra ravvisabile nel terzo dei “nodi” sopra illustrati: la totale indeterminatezza sugli importi delle “somme” al cui pagamento la parte soccombente può essere condannata.

Da un lato si deve rilevare che la possibilità di una condanna irrogabile “a prescindere” dall’ esistenza di un danno stride con la concomitante tendenza giurisprudenziale a restringere il perimetro del danno risarcibile. D’ altro lato non si può non segnalare il pericolo che simili strumenti  possano portare a condanne arbitrarie, del tutto avulse da esigenze di giustizia sostanziale (specialmente in una temperie culturale, quale quella in cui ci troviamo, in cui si tende a confondere troppo facilmente l’ abuso dell’ azione, da censurare, con il semplice uso, che invece è un diritto di rango costituzionale…). Sarebbe quindi utile uno sforzo degli interpreti mirante (per lo meno…) ad identificare parametri oggettivi di quantificazione, ancorati al valore della vertenza o, ancora meglio, alla entità delle spese di soccombenza quantificate dal Giudice.

Condotta in argini di certezza e prevedibilità la novità normativa potrà quindi rappresentare per gli operatori un buon viatico per la risoluzione dei casi più deprecabili di resistenze strumentali ed inflazioni processuali.