Nel paese di Enotria c’era una volta il Processo Civile. Era lento, farraginoso, ma produceva un bene prezioso: sentenze ragionevoli e ragionate, una giustizia a cui le parti si affidavano temendone i tempi, ma confidando nel risultato. I cittadini si rivolgevano al Processo e si lamentavano della sua lentezza, dicevano che ormai era troppo vecchio e non si rendevano conto di quanto fosse utile e giusto, con tutti i suoi acciacchi.
Un bel giorno il governo di Enotria decise di licenziare Processo Civile e di assumere al suo posto un gruppo di giovani sorelle che erano molto apprezzate in Europa: così arrivarono Velocità, Informatizzazione, Semplificazione, Sintesi e Diminuzione delle spese accessorie, Lievitazione delle spese processuali, Negoziazione e Mediazione.
E in effetti i tempi dei processi si accorciarono (un po’). Se non che, con il passare del tempo, la gente si rese conto che l’accorciamento dei tempi si stava verificando a spese della certezza dei diritti e della qualità del servizio giustizia. E più passavano gli anni, più le sorelle diventavano arroganti e presuntuose, e i cittadini toccavano con mano che i tempi si accorciavano non perché i Giudici riuscissero a sbrigare più lavoro (infatti mano a mano che le formalità e le garanzie diminuivano venivano ridotti gli organici dei Tribunali e il numero dei Giudici che avrebbero dovuto fornire il servizio) ma perché ormai la giustizia era diventata tanto incerta e costosa, e esistevano talmente tanti ostacoli ad impedirne l’accesso, che ormai la gente aveva paura a ricorrervi. O non aveva i mezzi per farlo.
E rimpiansero molto il vecchio, lento, Processo. Assieme a tante altre cose di cui si erano sbarazzati e che non avevano più.
Vi ho raccontato questa favola per inquadrare meglio un arresto recente della Corte di Cassazione: la sentenza 21 ottobre 2015, n. 21.318. La pronuncia arriva a coronare un processo iniziato nel 2007 con Cass. Civ. Sez. Unite 15 novembre 2007, n. 23.726. Al tempo la Suprema Corte, in omaggio a principi di deflazione del contenzioso che iniziavano a prendere piede, affermava che il frazionamento di un credito in molteplici azioni giudiziarie costituiva un comportamento contrario ad una buona fede “rafforzata” da una lettura costituzionalmente orientata del “dovere di solidarietà” tratto dall’art. 2 Cost., lettura discutibile e comunque prodromica ad una drastica compressione del diritto sostanziale del creditore. In altre parole la Corte di Cassazione affermava che il creditore malizioso che avesse frazionato il credito, spezzandolo in diverse azioni legali, potesse essere “punito” non solo sotto il profilo della negazione dei costi processuali di recupero del danno (come sempre è stato), ma addirittura con la cancellazione radicale della ragione del suo credito. Una forzatura resa plausibile esteriormente da alcuni eccessi processuali compiuti in singoli casi, ma che ha avuto effetti ben più perniciosi quando il principio, negli anni seguenti, è stato rafforzato ed esteso.
Nel 2011 la Corte di Cassazione per la prima volta esaminava la questione con riferimento non ad un negozio (come era stato nel caso precedente) ma bensì ad un illecito (trattavasi, nella specie, di una azione per danni da insidia intentata nei confronti di un ente locale da parte del conducente di un ciclomotore), e non esitava ad estendere il principio affermato nel 2007, con una pronuncia che recitava, in estratto: “In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non è consentito al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l’azione extracontrattuale davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale”.
Si noti come già con questa evoluzione una misura che era parsa nel primo arresto di buon senso (evitare comportamenti emulativi nei confronti di un debitore, a cui il ricorrente del 2007 aveva notificato una pioggia di decreti ingiuntivi) diviene una aberrazione. Infatti, avendo il danneggiato del 2011 subito un modesto danno materiale (immediatamente quantificabile) ed un considerevole danno fisico, aveva proceduto al recupero del primo, riservandosi poi una diversa azione per farsi riconoscere quanto dovuto a ristoro di menomazioni di più lenta stabilizzazione. Il risultato aberrante della Suprema Corte perviene ad applicare un principio di arbitraria creazione interpretativa (il cosiddetto “dovere di solidarietà”) per negare alla vittima il giusto ristoro di un grave danno fisico!
Si sperava che questo principio potesse essere arginato almeno nell’ambito di competenza del Codice delle Assicurazioni: in effetti il sistema di improponibilità differenziata della domanda stabilito dal combinato disposto degli art. 145 e art. 148 C.d.A. rende del tutto naturale e conforme a giustizia la pretesa del danneggiato di agire giudizialmente per la liquidazione del danno materiale già quantificato e non risarcito, con riserva di proporre poi una seconda domanda per il recupero del danno da menomazioni, il cui accertamento (è nozione di comune esperienza) giunge mesi (se non anni) dopo. Purtroppo le “sorelle della modernità” non perdonano, ed una Corte di Cassazione ormai tristemente schiava di logiche atecniche come lo sfoltimento ad ogni costo del contenzioso, con sentenza Cass. Civ. 22 dicembre 2011, n. 28.286 giunge ora ad estendere gli stessi principi all’ ambito dell’ assicurazione auto obbligatoria. Hai fatto causa ad una assicurazione inerte e morosa per farti risarcire il danno auto in attesa che di guarire? Peggio per te: nulla più ti è dovuto per le lesioni, visto che hai violato il “dovere di solidarietà”!
Che fare, di fronte ad una affermazione tanto paradossale? Le ultime ridotte in cui può ora trincerarsi il buon senso sono due considerazioni, una di tipo tecnico e l’altra logico sistematica. Tecnicamente palando l’ultima pronuncia non si sofferma ad esaminare il rapporto fra la franzionabilità della domanda e la proponibilità dell’azione. Può essere che un triste giorno un Giudice della Repubblica affermerà scrivendolo nero su bianco che se in un sinistro Tizio ha riportato lesioni gravi il suo diritto di farsi risarcire il danno materiale rimaga paralizzato fino alla guarigione ed alla scadenza dei termini di cui all’art. 148 C.d.A.: ma quel giorno di certo non è oggi: questo aspetto infatti non è esaminato dalla Suprema Corte.
Sotto il profilo logico sistematico basta evocare il paragone fra la situazione di fatto che si crea quando a subire lesioni sia il proprietario del mezzo e quando, in ipotesi, nel caso opposto, il conducente leso non sia l’intestatario dell’auto. Nel primo caso il proprietario sarebbe privato dell’azione, nel secondo no. Una disparità evidentemente inammissibile. O quando, come frequentemente accade, il diritto al risarcimento del credito auto venga ceduto ad un terzo (riparatore o società di servizi) pacificamente libero di fare valere il credito così acquisito, mentre il titolare del credito che non lo abbia ceduto si vedrebbe inibita l’azione di recupero.
Di certo, in attesa che la moda delle “sorelle modernità” passi assieme al clima emergenziale ormai imperante, e che ci si decida a riaffidarsi alle cure del buon, vecchio, Processo Civile, sarà bene che i patrocinatori tengano conto di questi quarti di luna tanto sinistri e procurino di garantire al meglio di diritti dei clienti, facendo attenzione ad evitare passi che potrebbero comprometterli con conseguenze pesantissime ed ingiuste. (avv. Marco Bordoni del Foro di Bologna)