Brutta tegola sulla testa dei danneggiati dalla pronuncia delle Sezioni Unite che scioglie finalmente il dilemma sulla cumulabilità di indennizzo (polizza infortuni) e risarcimento (r.c.) ma, purtroppo, in senso favorevole agli assicuratori. Con sentenza Cass. Sez. Unite 22 maggio 2018 n. 12.565, infatti, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto:
“il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ ammontare del danno risarcibile l’ importo dell’ indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato – assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto”.
A tale soluzione la Suprema Corte giunge dopo che un cinquantennio di uniformità giurisprudenziale era stato interrotto da Cass. Civ. 11 giugno 2014 n. 13233, cui era seguito, nel 2015, un ulteriore inquietante precedente che, pur non affrontando il tema del cumulo fra responsabilità civile e prestazione infortuni, esaminava il problema della coesistenza di polizza infortuni giungendo ad affermare che la somma delle prestazioni non può superare, per il principio indennitario, l’entità del valore del danno (così Cass. Civ. 13 aprile 2015 n. 7349).
Tali arresti, del tutto irriguardosi della sostanziale incommensurabilità fra prestazione indennitaria e risarcitoria, sono ora coronati dalla sanzione delle Sezioni Unite, la quale afferma che deve aversi riguardo, nella valutazione della cumulabilità delle prestazioni, non dei titoli, bensì del bene della vita garantito. Ne consegue che, nel caso della garanzia contro gli infortuni, l’ erogazione della prestazione indennitaria elide il risarcimento in una misura pari all’ entità della prestazione erogata (e viceversa).
Tale interpretazione risulta, a nostro avviso, del tutto incongrua a causa della natura artificiosa dell’ assimilazione della garanzia infortuni a quella danni: “l’assicurazione contro gli infortuni” citiamo il commento in tema P. Santoro “ non è equiparabile a quella contro i danni: il bene assicurato non è una cosa materiale e inanimata, suscettibile di proprietà e soggetta perciò, per se stessa, ad un’obiettiva valutazione economica, ma bensì il corpo umano nella sua interezza e nelle sue singole componenti, … e cioè un bene tutt’ affatto particolare, rispetto al quale, per la considerazione etica che i paesi civili hanno della vita umana, non è configurabile un puro e semplice contratto d’indennità come efficace strumento di riparazione del danno prodottosi.”.
E tuttavia la decisione della Suprema Corte pone ora i danneggiati titolari di una garanzia infortuni (e i loro patrocinatori) nella scomoda posizione di dover scegliere fra l’ accettazione di quella che non può non essere vissuta come un’ ingiustizia e l’ esperimento di un tentativo di superare la riserva in Tribunale in via interpretativa.
Potrebbe soccorrere, a tal fine, la precisazione contenuta in Cass. Civ. 11 giugno 2014, n. 13.233, sopra citata: “la detrazione dal risarcimento dal danno aquiliano dell’ indennizzo assicurativo percepito dalla vittima in virtù di una assicurazione contro gli infortuni” recita la sentenza “esige che il danno patito ed il rischio assicurato coincidano: se l’ assicurazione copre il danno da perdita della capacità di lavoro (danno patrimoniale) e la vittima del fatto illecito abbia subito solo un danno biologico (danno non patrimoniale) nessuna detrazione sarà possibile, a nulla rilevando che l’ assicuratore abbia, per effetto di particolari clausole contrattuali che ammettano l’ indennizzabilità di un danno presunto, pagato ugualmente l’ indennizzo”. Tale inciso (purtroppo non richiamato, ma nemmeno smentito, dalle Sezioni Unite) gioverà in tutti i casi (statisticamente prevalenti) in cui il trattamento contrattuale indennizza la perdita di capacità lavorativa.
Non pare soccorrere, invece, la classica clausola di rinuncia della rivalsa ex art. 1916 c.c.. La Cassazione, infatti, in esito alla ricostruzione sistematica che individua nell’ art. 1916 la “norma di legge” che “farebbe la differenza” nell’ escludere la cumulabilità imponendo il diffalco nel caso di cumulo responsabilità civile – infortuni (a differenza dell’ assicurazione sulla vita), specifica che la decisione dell’ assicuratore di non valersi del diritto di rivalsa è vana. Infatti: “poiché nel sistema dell’ art. 1916 c.c. è con il pagamento dell’ indennità assicurativa che i diritti contro il terzo si trasferiscono, ope legis, all’ assicuratore, deve escludersi un ritrasferimento o un rimbalzo di tali diritti all’ assicurato per il solo fatto che l’ assicuratore si astenga dall’ esercitarli” (pag. 31).
Si tratta, palesemente, di un sofisma, che nasconda una precisa scelta politica, simile a quella relativa al danno tanatologico, scelta peraltro esplicitata dalla stessa sentenza laddove giustifica la scelta con “un contenimento del livello dei premi nei limiti in cui l’ assicuratore sia in grado di recuperare dai terzi responsabili quanto erogato in forza dei propri impegni contrattuali” (pag. 28).
Un inciso che echeggia altre, recenti, decisioni della Suprema Corte e della Corte Costituzionale gravemente lesive dei diritti dei danneggiati ed assicurati, e che tradisce una forma mentis (forse inconsapevolmente) legata a concezioni economiche di liberismo estremo, secondo cui l’ intero sistema economico sociale si deve regolare deprimendo l’ offerta senza curarsi del fatto che, così facendo, si inaridisce la domanda e si crea una spirale deflattiva dei diritti senza fine.
Serve un cambiamento culturale, prima ancora che giuridico.
***
Avv. Marco Bordoni del Foro di Bologna